Capitolo 12

Parte Seconda

 

 

 

 

 

 

Lieve la luce dell’alba filtrava dalle tapparelle sconnesse, rivestiva i contorni della stanza d’una lieve trasparenza. Bernardo si divincolò alla ricerca del sonno ormai svanito nel leggero chiarore. Gli rimaneva l’amara immagine di un sogno che lo aveva perseguitato tutta la notte: quella di un uomo, un giovane dalla faccia in ombra, che instancabilmente appoggiava la canna di una rivoltella alla tempia, sparava, cadeva, si rialzava e ricominciava da capo il suo gesto assurdo. Il colpo isolato e mortale diventava raffica, ripetendosi in continuazione, ma i lineamenti irriconoscibili erano sempre sereni, il gesto fermo, la caduta senza schianti. La scena non si svolgeva in una stanza, ma su un prato dietro il quale si stagliavano antichi edifici. Era il profilo, appena accennato, dell’isola, avvolta in una luce perlacea nella quale lo sconosciuto spettatore si sentiva immerso, nella dolce assenza d’ogni temperatura, come in un liquido amniotico che avesse lo stesso calore del corpo. In un mondo così, pensava l’osservatore, che era poi la stessa vittima, ho galleggiato fino a quando mi sono affacciato alla luce. Ho gridato, volevo tornare indietro, ma qualcosa più forte di me mi ha spinto fuori: e l’erba era fredda, percorsa da insetti ostili, frusciante di serpenti dalle lingue guizzanti. Caricato da una molla sovrumana il giovane sparava, cadeva e si rialzava. Era un burattino senza tragedia, la caricatura di un personaggio che cercasse l’annullamento senza trovarlo.

Sono così anch’io? Bernardo se lo chiedeva mentre le gambe si agitavano inquiete sotto le coperte. O forse il sogno era l’immagine del suo masochismo, della sua volontà di annullarsi mentre la molla vitale che era in lui lo respingeva, dopo ogni colpo ostile, verso l’insensato conflitto con le cose? E quell’essere senza volto — o almeno senza volto rilevabile — era lo specchio di quella mancanza d’identità cui Cristina ogni tanto accennava, parlando di se stessa? Come sempre l’irrequietezza scacciava da lui ogni tentativo d’approfondimento. L’unica salvezza stava nella fuga, come ai tempi lontanissimi in cui il lavoro in un’agenzia giornalistica lo conduceva ogni giorno, all’alba, nella stanza dove le telescriventi sgranavano le loro raffiche di tasti perennemente in movimento mentre le parole scendevano a fiumi verso terra impresse su lunghi rotoli di carta perforata che si dipanavano con inquietante lentezza.

Lasciava alle spalle la casa addormentata, sbatteva il portone nel silenzio e attendeva che il primo tram si profilasse in fondo alla lunghissima via, con il faro ora appena visibile tra le brume dell’autunno, ora splendente nelle albe limpide della buona stagione. Stagliati attraverso il vetro dei finestrini i volti segnati e lividi dei lavoratori che avevano finito i turni di notte e quelli delle donne delle pulizie con i cappelli a sghimbescio, rumorose, frastornate dalle loro stesse chiacchiere. Guardiani e operai, con le dolorose smorfie della fatica, il capo spesso reclinato sulla spalla in un sonno che pareva mortale, si alternavano ad anonime vecchie forse spinte fuori dalla squallida casa solitaria dal desiderio di vedere qualcuno. L’alba aveva per lui, da allora, questa connotazione di una piccola folla di umiliati e offesi, gente strappata dal sonno come per una punizione, o desiderosa di rifugiarsi in un letto che la vita, ridestata negli altri e assillante attorno a loro, rendeva scomodo e ostile. Fuori dal tram lo attendeva il caffè dei giornalisti, anch’esso aperto alla prima luce, con gli amici usciti allora dalla tipografia e quelli che, come lui, già recavano addosso la stanchezza del lavoro da iniziare. Guardava il filo di caffè bollente scendere dal filtro nella tazzina, e lo spettacolo lo attraeva, anche se il liquido bollente, a quell’ora, aveva sapori repulsivi, amari o dolciastri. Risaliva a quei tempi la sua insonnia? O sogni oscuri, che non ricordava, lo laceravano nel profondo, ed egli apriva gli occhi per sfuggirne l’orrore? Difficile rispondere, perché i ricordi erano lontani e vacui come i sogni, sommersi nel corso di una esistenza che gli appariva sterminata e profondamente subìta, fino a scavare in lui avallamenti simili a rughe, onde turbinanti come quelle che il vento solleva nei deserti sabbiosi. Se cercava di guardare indietro, quegli abissi, quelle dune sconvolte, gli toglievano ogni possibilità di vedere con chiarezza. E i fatti del passato affioravano soltanto in attimi non prefissati, quando magari la mente era costretta dal lavoro ad esercitarsi diversamente.

Le gondole si muovevano, adesso, nel piccolo porto scavato in mezzo alla città. Sentiva il cozzare dei legni, lo sbattere dei remi, le voci forti e irose dei vogatori che intendevano aprirsi la strada verso i canali. Scoppiettò, inatteso, il motore di un motoscafo. La vita nell’acqua riprendeva come nei tempi antichissimi, quando canali e lagune non erano soltanto strade da percorrere ma difesa e rifugio. Per lui era così anche ora, e in questa luce — la sbiadita luce dell’alba — gli pareva di nuovo che l’isola, così a portata di mano, gli alzasse attorno mura protettive e amiche. Per Cristina, che proteggeva testardamente il suo sonno dai piccoli rumori, quelle fantastiche mura assumevano invece l’aspetto della invalicabile e massiccia cinta di una prigione. Così per un attimo tutto gli parve chiaro, quel che li univa ora e quel che forse li avrebbe amaramente divisi.

<<Sarà possibile, adesso, una conciliazione?>> pensò, mentre l’assonnato portiere che aveva indossato la giacca nera dell’uniforme sopra un pigiama azzurrino apriva la porta all’importuno sbucato troppo presto dall’ascensore. Forse siamo in grado di capire solo quello che ci interessa, respingiamo quel che potrebbe turbare le nostre abitudini quotidiane. Si gira attorno al problema, ogni spiegazione diventa banale, le parole si logorano e perdono di significato. E’ quel che era accaduto loro, in quei giorni travagliati, e non era certo un caso che lei giacesse, ignara, nel caldo letto mentre lui era spinto ad affrontare impavidamente un’ora che appariva ostile e gravida di difficoltà.

Al di là delle paratie la grande piazza deserta gli apparve cancellata da una nebbia trasparente che il vento faceva ondeggiare. Il campanile, diritto e possente, sembrava ondeggiare anch’esso tra le folate della foschia, che nascondevano la facciata e le cupole dorate della basilica. Al centro della piazza uno spazzino, con la scopa di saggina e il trabiccolo dalle ruote di gomma, si muoveva lentamente sul selciato umido e scivoloso, quasi seguendo per gioco le bianche decorazioni geometriche. Più avanti, a lato della chiesa, dalla quale emergevano, come sollevati da terra, tra le nuvole, i cavalli verderame, anche il palazzo azzurrino, con il vuoto frastaglio delle sue arcate e del loggiato, sbiadiva nel grigio velario. Nell’angolo, intirizziti nel gran freddo, Adamo ed Eva, bianchi e nudi, stavano immobili sotto l’albero dalle fronde intricate che li sovrastava. Un uomo, un giovane dal volto coperto da una fitta barba nera, si era sdraiato tra due pilastri, avvolto in un logoro pastrano militare. Accanto a lui un fiasco vuoto, giornali spiegazzati, le tracce di una solitudine affogata nel vino.

Eppure, in questo scenario da tragedia, il cuore di Bernardo batteva quasi gioioso, come fosse l’unica cosa viva e pulsante nel nebbione che stava dissolvendo statue e palazzi. Rumorosamente si alzarono le saracinesche di un caffè sotto i portici. Il barista aveva il volto gonfio di sonno, come i personaggi delle sue albe lontane. Ma era loquace, desideroso di comunicare con il primo cliente che varcasse la soglia del locale. <<E’ tempo da acqua alta>> disse, mentre provava la pressione della macchina nichelata. E infatti, fuori, alcuni messi del comune portavano tavole di legno e cavalletti, li depositavano sotto il loggiato e in mezzo alla piazza. Come evocato dalle parole dell’uomo del bar, un sottile velo liquido cominciò a dilagare dal molo, filtrando attraverso i fianchi delle gondole che sbattevano contro di esso, alzandosi e abbassandosi al moto delle piccole onde. Un bambino con larghi stivali di gomma andava e veniva nel filo dell’acqua, gridando ed alzando schizzi.

Fermo sotto il porticato Bernardo guardava l’insolita scena. Ormai l’allarme era dato e gli uomini del comune, in stivali e divisa nera, preparavano le passerelle, mentre l’acqua tracimava anche dalle fessure del selciato. I pochi negozi che stavano aprendo furono precipitosamente richiusi: anche il barista, che aveva indossato un cappotto sopra la giacca bianca, fece stridere di nuovo la sua saracinesca e si allontanò scuotendo il capo. La catastrofe era imminente. La radio ripeteva i suoi appelli, le campane suonavano e le loro vibrazioni si diffondevano insieme all’ormai irresistibile dilagare dell’acqua. Un vecchio ombrello, abbandonato aperto ai piedi di un basamento, sussultava all’arrivo delle onde. Così, superando ogni ostacolo, irrompevano i flagelli fin dai tempi antichi. Così, forse, l’isola lontana fu lentamente sommersa dalle acque e dalle paludi, e vani furono gli interventi degli uomini che alzavano dighe di terra e di sassi per salvare case e ricchezze.

Bernardo tornò, inquieto, nella stanza dove Cristina era ancora addormentata. Tutto era caldo e stagnante. Sarebbe arrivata fin qui l’acqua prevaricatrice? Si sdraiò sul letto, accanto alla donna, e accese la piccola lampada sul comodino. Leggeva il giornale appena acquistato, ma tendeva l’orecchio al mormorio che veniva dell’esterno. Uomini correvano come impazziti nelle calli, si levavano grida e imprecazioni. Anche Cristina, finalmente, aprì gli occhi, li girò attorno impaurita. <<Che cosa accade?>>: parlava rimanendo immobile, in un trasognato dormiveglia. <<La fine del mondo>>, cercò di scherzare Bernardo, senza togliere lo sguardo dal giornale dove altre notizie di catastrofi spiccavano nere sulle pagine. Anche l’albergo, ora, era assediato e dall’atrio giungevano voci d’allarme. <<Ho fatto un brutto sogno>> mormorò la donna con voce appena percettibile. <<Il mondo coperto dalle acque e io, nuda e atterrita, sulla cima ostile di un grattacielo. Intorno a me solo grigiore e desolazione, e su una barca alla deriva un cane che abbaiava disperato. Poi la barca veniva inghiottita in un gorgo e io ero del tutto sola, senza speranza>>. Aveva gli occhi umidi, some se piangesse, e guardava il volto assente dell’uomo. <<Hai anticipato i tempi>> le disse seccamente Bernardo. <<Siamo veramente assediati dall’acqua alta>>.

Fuori, adesso, era difficile camminare. File di uomini, formiche in fuga, si snodavano sulle passerelle, riflesse dalla superficie del lago che si era formato sulla piazza. Anche i palazzi antichi ondeggiavano, sdoppiati, sul pelo dell’acqua, quando improvvisamente il sole, apertosi un varco tra le nubi violacee, gettò cruda luce sulla scena. Vigili e pompieri, con altissimi stivali di gomma, guazzavano lentamente, lasciando dietro di sé scie iridescenti. Anche due barche erano apparse tra gli edifici: gremite di gente come arche di dannati scivolavano col fondo piatto là dove ieri c’era il solido pavimento di pietra.

Ferma in cima ai gradini delle paratie, dove l’acqua stava per giungere, Cristina volgeva il pallido viso senza trucco, atterrito, verso la piazza. <<Bisogna fuggire>> diceva come parlando a se stessa, <<bisogna lasciare il flagello dietro di noi>>. Rughe sottili erano apparse di nuovo agli angoli degli occhi, solcavano la fronte liscia. Gli occhi erano ancor sbarrati, come le accadeva dopo i sogni angosciosi che ogni tanto raccontava. Le sue convinzioni erano scosse da quel che accadeva davanti a lei, ma anche da tutto ciò che era accaduto in quei giorni: qualcosa di irrevocabile, un ammonimento senza vie di salvezza. La città del sogno era tornata ad essere il flagellato regno della pestilenza. Se i corpi erano rimasti sani, quel che regnava dentro di essi — l’anima, il pensiero? — era stato colpito dal morbo. La malattia corrompeva tutto, anche l’amore.

Stringeva il braccio dell’uomo che stava al suo fianco, ma lo sentiva rigido, privo d’ogni sensibilità, d’ogni palpito. Era sola, come nel sogno, davanti all’irruenza dell’acqua, e l’acqua avanzava lenta e inesorabile, tentacolo teso per afferrarla e portarla giù verso gli abissi. Era quasi tentata di cedere, di cessare la sua battaglia per esistere. Bello sarebbe stato lasciarsi andare, cullarsi tra acque e monumenti del passato, veder brillare l’oro dei mosaici come una fiamma purificatrice. Ma proprio tra quei mosaici, in una bianca marea di corpi atterriti, spiccava pauroso il mostro divoratore dalle cui fauci usciva per metà il corpo del peccatore punito, fissato per l’eternità mentre agitava inutilmente le gambe sottili. Da lui bisognava fuggire, anche a costo di cancellare per sempre il volto teso che, accanto al suo, guardava immobile l’acqua che ormai gli lambiva le scarpe.

Prefazione

Introduzione

Parte prima

1

2

3

4

5

6

7

8

9

10

11

12

13

14

15

16

17

Parte seconda

1

2

3

4

5

6

7

8

9

10

11

12

13

Epilogo

Indice Ultimo degli Altinati

Home Franco De Poli