EPILOGO

 

 

 

 

 

 

Tre mesi dopo la sua partenza dall’isola — si era agli inizi di una primavera stenta, rotta dagli scrosci di improvvisi acquazzoni che dilavavano la città — Cristina ricevette una lettera. Era in un momento di rara felicità perché il nuovo lavoro che aveva iniziato le dava, finalmente, un senso di sicurezza e di equilibrio. Era ormai convinta di dover tirare avanti per anni facendo traduzioni e compilando noiosamente voci di antologie, quando un’amica le aveva telefonato per avvertirla che c’era un posto libero in una casa editrice. Si era presentata subito, aveva avuto un esauriente colloquio, e due giorni dopo le era stata consegnata la lettera di assunzione. Il lavoro era iniziato immediatamente, e la novità l’aveva aiutata a superare in modo definitivo quel senso di frustrazione che l’aveva amareggiata a lungo al suo ritorno in città senza Bernardo, quando il grigiore delle nebbie così frequenti in quella stagione e la solitudine del suo piccolo appartamento le erano sembrati una condanna eterna e senza sbocchi. La calligrafia sulla busta, così ben conosciuta, non accese, perciò, la sua curiosità, e lasciò la lettera infilata nella casella con l’intenzione di riprenderla la sera, al ritorno dal lavoro. La aprì soltanto quando, consumata in fretta la cena, si adagiò nella poltrona che stava di fianco al letto. La lettera era lunga, tanto che si interruppe due o tre volte, prima di finirla, per bere qualche sorso di sherry (metteva sempre bottiglia e bicchierino per terra, di fianco alla poltrona) e per rispondere alla lunga telefonata di un’amica in crisi.

<<Solo ora — diceva la lettera di Bernardo — riesco a comunicare con te, dopo aver meditato a lungo sulla mia situazione e aver vinto quella pigrizia che blocca, ormai, tutte le mie iniziative. C’è una parte di me che vorrebbe tornare all’Arcadia, in cui tu vivi (così, a distanza, mi sembra la città dove abbiamo trascorso tanto tempo insieme), proprio come diceva un celebre personaggio che non hai mai voluto amare, forse perché io tentavo di importelo, quando scriveva alla sua amica. Ma l’altra parte, quella che chiamerei fisica, e che domina i miei movimenti, mi trattiene qui come se una superiore forza di gravità mi legasse a queste poche case, alle paludi, alle grandi chiese che anche tu hai ammirato. Perché noi, che avevamo fatto del dialogo una delle basi del nostro rapporto, non siamo riusciti a comunicare nei pochi giorni che sei stata qui, è cosa che solo adesso comincio a capire. Attribuivo la nostra crisi, come spesso mi è accaduto, alla differenza d’età che ci divide, a un modo diverso di interpretare i fatti che ci attorniano. Questo mi pare, oggi, ancora più vero: anche perché non si tratta più soltanto di decenni, ma di secoli. Devi sapere — non ho avuto il tempo, o forse la voglia, di dirtelo — che strani sogni popolavano le mie notti prima della tua venuta. Animali, fiori, scene pacifiche o selvagge mi apparivano come scavate in una pietra dura, pesanti come blocchi di granito ai quali, in qualche modo, mi sentivo incatenato. Queste scene e queste figure le ho ritrovate poi nel museo che sta al centro dell’isola: in bassorilievi, nelle pagine miniate dei codici, in sculture che il tempo ha corroso. Sono cessati così i sogni — ora le mie notti sono nere e profonde come una spelonca inesplorata — ma la realtà di quelle figurazioni è come se dominasse ormai la mia quotidiana esistenza.

Se giro l’occhio sull’isola, coloro che vi abitano, uomini e donne di cui conosco nomi e cognomi, mi passano davanti come incorporei fantasmi, anche quando il mio rapporto con loro ha la parvenza della vita, con gli allettamenti del cibo, del vino, anche del sesso (e qui dovrei confessarti che una storia, iniziata prima che tu sbarcassi nel gelo d’una sera d’inverno, mi ha stranamente coinvolto e talora mi sento trascinato, in giorni mai prescelti ma forse predestinati da regole che non ho voluto approfondire, verso quella locanda dove ci siamo amati per l’ultima volta. E, dovrei aggiungere, verso quella stessa stanza che sembrava riservata a me ancor prima che io comparissi in queste lagune). L’andare con quella donna che non ti nomino, anche perché mi sembrerebbe una confessione di dubbio gusto, ha ogni volta il senso di una profanazione: come se gli atti amorosi fossero la rottura, o la caricatura, di gesti ieratici che recavo da sempre dentro di me senza saperlo. Perché sull’isola i templi che certo sono rimasti intatti sotto le acque e il fango delle paludi, e quelli che ancora restano in piedi, con le loro sagome così note e le immagini che animano mosaici e sculture, sono parte di noi come le case che abitiamo, i letti sui quali siamo soliti giacere. E dicendo noi intendo coloro che hanno radicata qui la loro discendenza (non a caso portano il nome di lontanissimi abitanti di cui sono state cancellate anche le tombe), ai quali io mi sono unito ricollegandomi a un passato che sgorga ogni giorno da me come l’acqua da una sorgente rimasta occlusa per tempo immemorabile.

Ti farò forse ridere parlandoti di un inconscio ancestrale, che sta ben al di sotto di quel pur misterioso Es che il nostro comune eroe del pensiero di nome Groddeck definiva una forza da cui siamo vissuti mentre crediamo di essere noi a vivere. Se cerco di interpretare quel che sento, e che confusamente ti espongo, mi addentro, senza potermici opporre, nell’inesplorato e nell’inesplorabile. Ma il mio compito, in questa prigione di vetro di cui sono recluso volontario, e attraverso la quale vedo il mondo delle isole, il vicino distendersi della costa, il gioco delle maree e — nei giorni sereni — il profilo della città lontana alla quale non ho più fatto ritorno, è proprio quello di esplorare me stesso e la storia di cui mi sento figlio. Se dovessi riassumertela, così come l’ho letta nelle pagine scritte faticosamente da un pescatore finito suicida, potrei dirti che è la storia delle popolazioni che giunsero qui per fuggire alle stragi e alle ruberie dei barbari in un medioevo cupo e dominato da fantastici eventi religiosi. Corpi di santi, sontuose pianete, cattedrali erette con la sola forza delle braccia caratterizzano quel tempo che sembra essersi abbarbicato qui, tra le sempre più profonde paludi che lo hanno inghiottito senza però annullarlo. Ma questo è solo cronaca, fatti che si possono leggere anche sui libri di storia. So di rasentare, scrivendoti queste cose, i limiti del misticismo. Ma perché negare realtà che non sono a portata di mano?

Qui mi bastano, per vivere, i soldi della mia pensione. Ho abbandonato così le mie collaborazioni, ma cerco di fare qualcosa ugualmente. Mi hanno offerto qualche supplenza nelle scuole delle isole qui attorno. I bambini mi guardano con occhi spalancati quando rievoco davanti a loro l’irrompere delle orde barbariche, con i piccoli cavalli nervosi, le lance dalla punta sottile e gli archi tesi nello sforzo di scoccare. E anche le pesanti barche dal fondo piatto che toccarono le prode degli isolotti e vi scaricarono vivi e morti, e le città che sorsero in anni di duro lavoro, con cerchie di mura fortificate. Sono, lo capisco, le stesse mura che delimitano me e quelli che, come me, hanno avuto qui le loro origini (non ho dubbi, ormai, che la mia famiglia visse qui nei secoli addietro). Forse un giorno tutto questo svanirà come un sogno, finirà come il frutto di una fantasia morbidamente avviluppata in se stessa.

Penso che tu possa perdonarmi, dopo questo tentativo di spiegazione. La verità è che, se anche ogni tanto sento la nostalgia di te e delle tante piccole, e grandi, cose che abbiamo avuto in comune, non posso agire diversamente. Non disprezzarmi, amica mia. E se qualche volta vuoi avere ancora una qualche immagine di me, pensami come l’ultimo degli Altinati>>.

 

Prefazione

Introduzione

Parte prima

1

2

3

4

5

6

7

8

9

10

11

12

13

14

15

16

17

Parte seconda

1

2

3

4

5

6

7

8

9

10

11

12

13

Epilogo

Indice Ultimo degli Altinati

Home Franco De Poli