Capitolo 5

Parte Prima

 

 

 

 

 

 

Il giorno dopo — aveva appena consumata la colazione accanto ai fornelli ancora freddi della cucina — un ragazzo gli portò un telegramma. Diceva soltanto: <<Mi sento tanto sola. Se vuoi, ti raggiungo. Cristina>>. Se lo ficcò in tasca, dopo averlo letto due o tre volte, perché la città da cui arrivava gli sembrava remotissima. Doveva, prima ancora di prenderlo in considerazione, ripensare al suo nuovo sogno, all’impercettibile spostamento notturno che lo aveva portato, bianco dannato in fuga, in un giudizio universale brulicante di figure. Grappoli di teschi, con vermi sottili che si snodavano fuori dalle buie cavità degli occhi, erano rotolati sulla nera terra inumidita, calpestati da peccatori nudi, perseguitati da angeli enormi che brandivano lance aguzze, azzannati da mostri pelosi. Librati sopra i dannati, al culmine di un gigantesco edificio senza pareti sormontato da un dio crucciato e implorato che aveva ai piedi, sparse, le chiavi degli umani destini, stavano cori di fedeli dalle piccole teste, santi e apostoli seduti in grandi scranni con le pieghe severe delle vesti attorno alle ginocchia mentre altri angeli sereni e trionfali, in vesti smaltate dai mille ricami, soffiavano in trombe sottili come canne.

Aveva udito, nella solitudine della notte, rauchi richiami di voci, miagolii striduli e, lontanissimi, suoni di buccine (o sirene di motonavi?) che parevano provenire dalle immagini ferme e stilizzate. Forse anche le statue dell’orto si erano liberate dai loro ambigui veli e si aggiravano per le strade dell’isola. La ballerina di pietra si era lanciata in una danza scurrile di fianco ai luoghi sacri immersi nell’ombra. Una vita antica e folle pareva essersi scatenata tra la rete immota dei canali, fuori dalla terra che da secoli ricopriva fantasmi di case e d’opifici.

Era la stessa terra che adesso, uscito all’aperto, calpestava. Aveva imboccato un sentiero fangoso dietro la pensione e camminava tra campi di carciofi e radi filari d’alberi, forse da frutta, che parevano oppressi e intristiti dal freddo e dalla sottile foschia che si levava dalla laguna. Le pozze d’acqua ai lati del sentiero erano gelate e le lastre di ghiaccio che s’erano formate parevano opachi specchi di zinco nei quali si rifletteva la sua goffa figura imbacuccata. Fu in quel momento che gli tornò oscuramente alla memoria la figura della donna del telegramma. Era un ricordo gelido e tranquillo, come un ritratto dipinto in tempi lontani e fissato alle pareti di un luogo a lui non più conosciuto, una essenza senza peso come il guscio vuoto di un insetto disseccatosi. La vedeva condurre la propria esistenza come una pallida ombra che si spostava senza peso in una enorme stanza, tra scaffali colmi di volumi di cui non riusciva a leggere i titoli impressi sui dorsi. Il paesaggio, fuori dai vetri, era privo di suoni e di colori.

Lo riportò alla realtà un affannoso respiro al suo fianco. Uno snello cane da caccia, col fiato che usciva denso dalla bocca semiaperta, gli correva a lato, al di là di un recinto di rete a larghe maglie di filo di ferro arrugginito. Un altro cane identico lo affiancò ed entrambi, dopo averlo preceduto, si fermarono di fianco a un cancello sporgendo verso di lui, tra le sbarre verdi, musi soavi, in cerca forse di carezze. Si fermò a toccare i nasi umidi con la punta delle dita, mentre occhi tondi, amichevoli, lo fissavano. La casa che sorgeva dietro il cancello verde sembrava deserta: chiuse le finestre, sbarrata la porta di legno. Era una dimora antica, a due piani, e nella parte superiore — che non era probabilmente stata rifatta come il resto — si aprivano bifore gotiche. Bizzarri comignoli rigonfi, di disegno diverso, spuntavano alti dal tetto, ma non ne usciva un solo filo di fumo. I cani scalpitanti sembravano gli unici abitanti del luogo, in cerca di un’affettuosa presenza: ma un secco fischio che proveniva da un boschetto non lontano fece loro rizzare le orecchie. Corsero subito via, trottando sulle esili zampe, e sparirono alla sua vista.

Bernardo allungò il passo, come se occhi curiosi lo fissassero da lontano e lui volesse mantenere l’incognito. La padrona della pensione gli aveva prestato, per la sua passeggiata, alti stivali di gomma verde, che gli arrivavano fin sopra il ginocchio, ed egli deviò dal sentiero, affrontò alti argini di fango fino a quando si immerse in una distesa di canne che si agitavano al lieve vento, ficcate in un velo d‘acqua limpida che gli arrivava alla caviglia. Più avanti un insicuro ponticello di legno, sostenuto da due pali ondeggianti piantati nel fango, portava al di là dello stretto canale. Lo affrontò, lo sentì barcollare sotto i piedi, e si trovò davanti a un altro recinto di filo che circondava una palude frammentata da isolotti di muschio. Grandi alghe verdissime, simili a fazzoletti appena lavati, erano stese per terra. Si tolse i guanti e ne sollevò una, un brandello umido e viscido ma non spiacevole al tatto.

Paludi come queste, gli venne da pensare, avevano inghiottito un’intera città che, nella riproduzione stinta della mappa di un cartografo del Cinquecento appesa a un muro della pensione, appariva come l’ultima delle piccole chiazze di terra sparse nella laguna, tra il favoloso intrico di Venezia e la terraferma, che anche adesso si profilava all’orizzonte con le alte montagne bianche di neve. Nella mappa una mano sicura da miniaturista aveva dipinto, nel piccole cerchio che emergeva tra le onde increspate, una miriade di edifici stretti attorno all’alta torre quadrata. E c’erano anche, o almeno così gli pareva di rammentare, altri campanili di chiese oggi sparite insieme alle case.

 

Prefazione

Introduzione

Parte prima

1

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3

4

5

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7

8

9

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11

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13

14

15

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17

Parte seconda

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13

Epilogo

Indice Ultimo degli Altinati

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