Capitolo 7

Parte Seconda

 

 

 

 

 

 

Non erano stati mai così lontani come ora, nel momento in cui le loro vicende sembravano fondersi, tralci di una sola pianta irrorata dal sole d’inverno. Il prato verde, inumidito da una breve pioggia, rifletteva luci smeraldine verso il cielo chiaro e sbiadito. A metà pomeriggio i raggi si insinuavano fin nelle fessure, tra i blocchi di pietra della cattedrale che sorgeva davanti a loro, affacciati insieme alla stretta finestra della camera. La città era lontana, con le case sull’acqua, scialbate in riflessi di vetro opaco, che ondeggiavano sinuose tra le onde sollevate dai natanti. Il passaggio da calli gremite dalla fuga senza fine della gente a questo spazio deserto era stato indolore; una necessità avvertita da entrambi, questa volta, come una riconquista della possibilità di rimanere uniti nell’isolamento. Ma i pensieri percorrevano strade divergenti, le parole rivelavano soltanto un’amara finzione.

Quel che li colpì, all’improvviso, fu il punto rosso spuntato in fondo alla piazza, che assunse via via le sembianze di un giovane ondeggiante su gambe lunghe e magre, incerto, inchiodato sotto il peso di uno zaino di nailon scarlatto. Lo guardarono andare e venire, paziente ricucitore degli spazi che il suo vagabondare tendeva tra le colonne della chiesa e la fontanella accanto all’orlo del canale, sulla quale si era chinato già due volte per bere lunghe sorsate d’acqua gelida. Lo ritrovarono, poi, quando scesero in cucina. Era seduto a un lato del lungo tavolo, i gomiti appoggiati al ripiano, la barba a punta che sfiorava la tovaglia d’incerato. Lo zaino rosso era appoggiato accanto alla stufa.

Visto da vicino lo scalcinato turista, che dalla finestra era loro apparso come uno dei tanti ragazzi giramondo che arrivavano in ogni stagione nella laguna, appariva un uomo d’una certa età, il volto dalla pelle scura segnato da innumerevoli rughe. Tra le folte sopracciglia, dello stesso colore rossiccio della barba, si aprivano due occhi d’un azzurro slavato. Sui magri polsi, che spuntavano dalle maniche sfilacciate e sporche di una camicia color cachi, aveva tatuaggi appena accennati, a forma di fiore. La giacca di pelle a frange lo faceva sembrare un cacciatore di marmotte. Al loro apparire si era alzato in piedi con uno scatto quasi militaresco e, tendendo la mano ossuta, aveva pronunciato il suo nome: Samuel Filkenstein. Era poi ripiombato sulla sedia, come schiantato dalla stanchezza, e si era rimesso a sonnecchiare, chinando la testa verso il tavolo.

Pietro Bono, che era entrato nella stanza dopo aver lasciato gli scarponi infangati fuori dalla porta, li aveva chiamati con un cenno presso il camino mentre attizzava il fuoco, aggiungendo legna secca alle braci semispente. <<Vuol rimanere qui a dormire, questa notte. Pensate che mi possa fidare? Ha detto che mi paga in dollari>>. Alla luce rossa del caminetto il suo placido volto aveva assunto un’aria furbesca, la sembianza di un oste che soppesa le risorse economiche di un possibile cliente. Bernardo guardò Samuel, che appoggiato ormai il viso alla tovaglia d’incerato, russava senza ritegno. <<Dev’esser molto tempo che non si lava>> disse, annusando intorno. <<Ho paura che le appesterà il letto>>. Cristina reagì con durezza: <<Il fatto che non si lava da qualche giorno non vuol dire che sia uno sbafatore. Lui, certo, le camere con bagno non può permettersele>>. La sua voce vibrava, irritata. <<Tu non riesci a capire chi ha deciso di vivere fuori da quegli schemi che gli uomini della tua età hanno accettato>>. Pietro Bono alzò gli occhi, curioso di vedere come Bernardo avrebbe reagito. Ma l’uomo controllò la sua rabbia. Troppe volte lui e Cristina avevano discusso su questioni del genere e mai c’era stato accordo. E in verità doveva ammettere che il suo ruolo di personaggio di altri tempi, ma aperto e comprensivo, rivelava tutta la sua inconsistenza quando, dalle discussioni teoriche, si passava ai problemi pratici, anche i più insignificanti. <<Senza di me, però>> pensò con astio <<saresti anche tu in giro per il mondo con uno zaino sulle spalle, ammesso che fossi stata capace di rinunciare ai bei vestiti, ai ristoranti e agli alberghi che un qualsiasi lavoro borghese poteva offrirti>>.

La vergogna che lo colse, subito, a quel pensiero, gli bloccò ogni risposta. Si limitò a dire a Bono che spettava a lui decidere. Intanto Filkenstein, quasi avesse intuito che si stava parlando di lui, levò il capo dal tavolo e li guardò con aria interrogativa. <<E allora>> disse <<pronto il letto per il povero Sam?>>. Il suo italiano era stentato, ma chiaro. Non attese che Pietro Bono gli rispondesse. Li raggiunse presso il caminetto e sedette sul ciocco che serviva per tagliare a pezzi con la scure la legna troppo voluminosa. <<L’Italia è l’altra mia patria>> sentenziò. <<Negli States non si può vivere, tutto caro, tutto predisposto. Qui la gente è più generosa, non rompe le scatole. Sono qui da quattro anni, giro in lungo e in largo>>.

L’americano continuò a parlare, con esagerata vivacità, delle sue esperienze come cameriere a giornata e come facchino. <<Poi ho questo>> aggiunse, togliendosi di tasca una piccola armonica a bocca. <<Gli italiani amano la musica, fanno cadere i soldi nel cappello>>. Cominciò a suonare, vecchi motivi del West e canzoncine d’attualità. Anche Felicita era scesa e, ascoltando l’ospite che suonava, preparava la cena e la tavola. <<Gli italiani sono davvero generosi>> pensò ancora Bernardo: <<finanziano l’infingardaggine e la pigrizia>>. Filkenstein, intanto, aveva ripreso a parlare dei suoi vagabondaggi, di quando era costretto a dormire negli androni rannicchiato nel sacco a pelo. La famiglia gli mandava ogni tanto, fermoposta, qualche dollaro. <<Sono vecchi, in pensione, a loro non manca nulla>>. A poco a poco, però, la sua voce si faceva fioca, il suo entusiasmo si smorzava. Era come se l’energia lentamente lo abbandonasse e, al di sotto del fiume delle parole, cominciasse a emergere una realtà diversa. I quarant’anni — tanti ne aveva denunciati — che incombevano, il college che lo aveva espulso mentre giocava a fare l’eversore, la società che lo rifiutava.

Quando Felicita li invitò ad accomodarsi, Samuel s’era fatto muto. Mangiò la minestra silenzioso, battendo il cucchiaio sulla fondina. Ogni tanto si fermava, borbottando qualcosa tra sé e rallentando il pasto degli altri. Cristina, seduta di fronte a lui, lo guardava impietosita, e il suo atteggiamento fece ripiombare Bernardo in una cieca collera. Avrebbe voluto battere il pugno sul tavolo e proclamare, di fronte a tutti, che il rifiuto del lavoro era una gran pagliacciata, così come una pagliacciata era la scelta di una libertà impossibile, che si sarebbe conclusa, alla fine, con una bella fumatina, con l’oblio di ogni cosa, ragione e sentimento, attraverso una dose di allucinogeni. Ma invece di parlare si levò di scatto, indossò il giaccone che era appeso di fianco alla porta, e uscì nel gelo della notte.

Rabbrividì, quando si lasciò alle spalle la luce della cucina, ai lontani latrati dei cani alla catena. Intorno a lui i gatti frusciavano silenziosi come serpenti in agguato. Le domande che aveva allontanato da sé, nella sua smania di inveire contro il vagabondo, gli si infittivano nella mente. La rabbia era sbollita, ma che cosa gli restava? Era stata forse giusta la sua scelta di vita? Che cosa aveva da contrapporre al mondo in declino dei vari Sam che giravano il mondo con lo zaino o indossavano i lunghi abiti arancione della rinuncia alla mondanità? Qualche viaggio, qualche amore immaginato come misura estrema dei sentimenti, qualche visita nei musei portando dentro di sé punti esclamativi già codificati per i capolavori del passato. Viveva, questa era la realtà, come in un romanzo deteriore, invecchiava senza passioni, tra convincimenti troppo facili e, come aveva detto proprio Sam, predisposti.

Si trovò, così, davanti alla sedia di Attila, che sorgeva dal prato come un bianco fantasma, illuminata dalla luce violetta dei lampioni. Invitante, forse, per un passeggero affaticato, ma fredda, come il marmo del sepolcro. Solo il gatto nero che, fuggito al passaggio di Bernardo, era saltato leggermente sul ripiano, sembrava trovarvisi a suo agio. Stava immobile, in posa da sfinge, e i suoi occhi gialli segnavano un punto fermo nel buio. Angoscia e disperazione regnavano adesso nel cuore di Bernardo, dopo che ogni rabbia era sbollita: le stesse che avevano condotto qui, per l’ultima volta, il vecchio Orseolo? Respinse con sdegno il paragone. Infinita era la notte, e i suoi misteri ora spietati, ora misericordiosi. La stirpe dell’uomo, uscita dal nero ferale delle caverne, aveva acceso fuochi, l’orizzonte si era allargato in centri concentrici. Ma tutto questo non bastava più.

Così Bernardo tornò, infreddolito, a casa, e già intuiva che cosa lo avrebbe atteso. Attorno al fuoco, con i volti arrossati dalle fiamme ineguali della legna secca, c’erano i Bono, con Samuel e Cristina. Samuel suonava, con l’armonica a bocca, una melodia disperata e Cristina lo guardava con le labbra socchiuse, stordita dalle note lamentose. Il concertino cessò con un piccolo, familiare battimani. Cristina, come lo vide apparire sulla soglia, gli fece un ampio cenno invitante. Ma la sensazione di estraneità che aveva provato entrando era troppo profonda. Sentiva, sconvolto, di non appartenere neanche a quella musica, e al mondo che essa evocava. Borbottò una scusa e salì a capo chino.

Cristina, che raggiunse la camera a tarda notte, lo trovò chiuso nel sonno, che lo aveva tramortito mentre ascoltava la musica e le voci lontane. Si agitò tra le coperte, e mormorò qualcosa, come infastidito dai lievi rumori che lei faceva spogliandosi. E quando gli si fece vicina per scaldarsi, le mani di lui la respinsero con durezza.

 

Prefazione

Introduzione

Parte prima

1

2

3

4

5

6

7

8

9

10

11

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13

14

15

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Parte seconda

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13

Epilogo

Indice Ultimo degli Altinati

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