Capitolo 13

Parte Prima

 

 

 

 

 

 

Traballando nella scia lasciata dal grande scafo, la barca di Urso si avvicinò. Da lontano il pescatore già gli gridava qualcosa e Bernardo, che stava per tornare sui suoi passi, dovette tendere l’orecchio. Presto Urso fu accanto a lui, il volto arrossato dalla voga e dal venticello tagliente. <<Mi ha invitato un amico a mangiare il pesce a San Francesco>> gridò. <<Adesso vado a prendere la barca a motore. Se vuol venire anche lei, son di passaggio qui tra una mezz’ora>>. Bernardo esitò a rispondere, ma il vecchio si era già allontanato senza dire nulla. Presto sarebbe tornato, e non c’era alternativa. Ma, in fondo, questo non dover decidere, questo ripetersi di incontri sempre affidati al caso, non gli dispiaceva. Aveva tutto il suo tempo davanti a sé, e con esso la libertà di lasciarsi andare. Pure, qualcosa lo inquietava. Come se, camminando in una strada deserta, in una limpida notte d’estate, avvertisse d’improvviso una presenza sopra di lui. Il cuore galoppava, gli occhi erano coperti di buio, come quelli d’un cavallo da giostra incatenato al suo palo, perduto in infiniti cerchi che non avevano meta. All’orizzonte spuntò una leggera nube grigia che avrebbe potuto incupirsi, e incorniciarsi di spettrali saette. Perché ora, mentre era in bilico sull’orlo fangoso del canale, la donna con la quale aveva vissuto in uno spazio dominato dall’equilibrio e dalla serenità, ritrovando profonde radici nell’amore, gli appariva come un’intrusa? Perché (e questo, è vero, gli era accaduto in altre occasioni, ma solo quando avvertiva un pericolo che apriva abissi oscuri davanti a lui) non contava le ore che mancavano all’arrivo, ma piuttosto il tempo, ormai limitato, in cui poteva rimanere solo?

Continuò a porsi queste domande anche quando posò il piede sulla barca malsicura di Urso. Il pescatore, muto e impassibile, ingranò la marcia alta del motore e in un attimo la riva fu lontana, la laguna li avvolse in una grigia ragnatela. Seduto a poppa con in mano la barra del motore-timone, Urso teneva il viso alto nel vento della corsa, gli occhi fissi ora sull’acqua, dove affioravano rischiose secche, ora davanti a sé, come inseguendo i riflessi perlacei della scia. L’isola di San Francesco, che appariva come un lieve rialzo verde sulla superficie piatta, si alternava, nella mente di Bernardo, con le fotografie che aveva visto in un vecchio libro abbandonato in uno scaffale della pensione. Le due immagini si sovrapponevano e i cipressi neri facevano velo, nella distanza, al puntuto campanile veneto. Si profilava, tra tronchi e fronde, il muro bianco d’un lungo edificio. Qui alberi in lunga fila, e monaci, anch’essi neri, le teste affondate nei cappucci, avevano accolto frate Francesco e il suo fratello Illuminato affranti per il lunghissimo viaggio dalla lontanissima Soria. Fu Urso a raccontargli la storia di come il frate piantò nella terra paludosa il suo bastone di legno di pino, e come esso germogliò e crebbe. La sua voce era sommessa e incredula, come quella di uno stanco cicerone. Egli sapeva trovare nel vino, verità e storie ben diverse: ma in quel momento, nel deserto dell’acqua interminabile, allargava le braccia in croce, lasciando l’impugnatura del timone, come per convincere anche se stesso che il miracolo era vero, e vera non poteva non essere quella <<beata solitudo>> incisa nell’architrave del chiostro e di cui affermava confusamente il significato. La solitudine, certo, gli era amica, un colloquio di secoli con i pesci, le canne, gli uccelli acquatici che ora si levavano diritti verso il cielo luminoso. Bernardo ne fu contagiato e il miracolo era ormai a portata d’occhio: non si meravigliò di vedere, a mano a mano che l’isola si approssimava, figure di monaci in lunghe cappe scure, usciti proprio dalla beata accettazione della solitudine.

Non c’era nessuno, però, quando la barca toccò il suolo presso un’alta croce di pietra, tra lunghi gradini di pietra corrosa. Il monastero pareva deserto, severo nella sua modestia, capanne di paglia e fango sorgevano qua e là in prati d’erba incolta, ingrigita dalla palude. Lo stivale di gomma di Urso toccò per primo la melma del suolo e il volto rivelò un disgusto che mal s’accordava con la sua predicazione di poco prima. <<Jacopo è là>> disse, indicando con la mano tesa un lontano casale dal quale uscivano a ondate nuvole di fumo. <<Viene a far lavori per il convento>>. Arrivarono a fatica, tra rigidi steli che spuntavano dalla poltiglia, fino all’edificio, che aveva al fianco l’ombrello scarnito d’un pino. I frati erano distanti, divisi da loro da un profondo canale, e passeggiavano a coppie accanto al monastero. Bernardo levò il braccio per salutarli, ma le figure incappucciate scomparvero dentro un portone, nell’ombra del chiostro.

L’uomo che uscì dal capanno era in maniche di camicia, nonostante il freddo che s’era fatto intenso, e allungò la mano solida dicendo soltanto il suo nome <<Jacopo Michiel>>. Età e fattezze erano nascoste da una barba maestosa, tra il biondo e il grigio, e peli fitti spuntavano dal colletto aperto sul collo. Li accompagnò all’interno dove una lanterna a petrolio, appesa al soffitto, illuminava appena il vasto stanzone senza finestre, in un angolo del quale, su un focolare di mattoni, una gigantesca padella nera sfrigolava, colma d’olio e di pesce. Cassette di legno vuote e lunghe assi grezze formavano il tavolo e una panca. C’erano i soliti bicchieri di vetro pesante e piatti immacolati di sottile ceramica, bordati d’oro. <<Sono dei frati>> disse l’uomo come per giustificarsi, e uscì, si chinò sul rotondo pozzo di pietra per tirar su due bottiglioni stillanti acqua gelida. <<Anche il vino è dei frati>> aggiunse. Poi, senza più parlare, rovesciò il pesce direttamente nei piatti, stappò il vino e lo versò nei bicchieri. Mangiarono in silenzio, per un tempo che a Bernardo pareva privo di limiti. Come poco prima — o erano passati giorni? — quando camminava di fianco ad Amabile, si sentiva vincolato in un misterioso intreccio, personaggio di una trama il cui autore rimaneva nell’ombra. Se non altro, riuscì a pensare, mentre afferrava uno per uno, con le mani, i piccoli pesci argentei, stava facendo l’abitudine a quel vino leggero e aspro, facile al palato e suscitatore di fantasie.

Il fumo del focolare, che si andava lentamente spegnendo, invadeva lo stanzone, filtrando dalle fessure aperte tra le pareti di canne e le frasche del tetto. Perché chiedersi spiegazioni? Jacopo Michiel era allegro, chiuso nel folto della sua barba, e Urso, come al solito, beveva con indifferenza, quasi che un dovere accettato, e riverito, gli muovesse la mano e la bocca. L’ospite, intanto, aveva indossato una giacca a vento imbottita, lucida, color verde smeraldo, che lo faceva apparire in quel rustico luogo come una presenza inquietante. <<E’ là>> disse all’improvviso, indicando la parete che gli stava di fronte <<che Francesco piantò il bastone>>. Levandosi in piedi afferrò un ramo e rifece, con ostentata lentezza, il gesto del santo. Aveva le gambe malsicure, come gli altri del resto. Cercò di fare una piccola danza intorno al legno che aveva faticosamente piantato nel duro suolo di terra battuta e finì per terra tra foglie secche e lische di pesce. Pacificato, rimase immobile, come addormentato, verde insetto luccicante nel buio. Anche Bernardo, appesantito, con la mente confusa, spostò il piatto e appoggiò le braccia e il capo sul ruvido piano del tavolo. Nel sonno sentiva, lontanissimo, il fragore del suo stesso russare: sordo e pesante, ma non tale da ridestarlo da quell’ignoto sepolcreto in cui era rinchiuso.

 

Prefazione

Introduzione

Parte prima

1

2

3

4

5

6

7

8

9

10

11

12

13

14

15

16

17

Parte seconda

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13

Epilogo

Indice Ultimo degli Altinati

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