Capitolo 1

Parte Prima

 

 

 

 

 

 

 

Con un rapido movimento del braccio Bernardo tirò la cordicella dell’avviamento e il rombo sordo del motore risuonò nel canale silenzioso coprendo il lontano abbaiare dei cani alla catena. L’elica cominciava a mordere l’acqua grigia della laguna che l’alta marea muoveva come la corrente lenta d’un fiume. Sciolse, ondeggiando insieme alla barca, il cavo di nailon verde che teneva lo scafo legato al palo piantato nel terreno fangoso. Un colpo all’acceleratore, e lo scafo piatto partì scivolando tra le canne, sfiorando i bordi dello stretto canale in fondo al quale l’arco del ponte si rispecchiava tremolante.

Infagottato nella pesante giacca a vento, con la sciarpa intorno al collo e il berretto di lana calato fin sugli occhi, riprese la navigazione che aveva cessato il giorno prima, all’imbrunire. Cercava nuovi sbocchi, tra i canali che si allargavano e i voli pesanti degli uccelli di palude (i gabbiani, invece, si libravano alti sul filo del vento, o stavano accucciati nell’acqua come le chiocce in attesa sulle uova fecondate), ma la mano, inconsapevolmente, tendeva a bordeggiare intorno al vasto cerchio dell’isola, come se una catena lo legasse, stanco cavallo da mola, al campanile massiccio che sorgeva di fianco alla cattedrale, attorniato dalle paludi melmose ma saldo e fermo nella sua statica maestosità.

Questo fallito tentativo d’evasione si ripeteva ormai da parecchi giorni — era arrivato lì da un tempo che gli pareva immemorabile e la barca gli era stata affidata come pegno d’amicizia — anche se le case e le chiese di Burano e Mazzorbo erano a portata di mano, alte sul pelo dell’acqua, e parevano invitarlo nei loro caldi bar, affollati di vecchi che giocavano a carte davanti al bicchiere di vino bianco, e nei ristoranti dove la cucina spargeva odori invitanti di zuppe e di pesci.

Perché avesse deciso quel viaggio, e prolungato il suo soggiorno nella locanda dove, in quell’inizio dell’anno, si dormiva ai limiti del gelo, con le stanze riscaldate soltanto dal prolungamento del tubo della stufa accesa incessantemente in cucina, unico locale accogliente, non avrebbe potuto dirlo ancora con precisione. Quando certi amici gli avevano parlato dell’isola, e della sua splendida, solitaria bellezza, documentata da una serie di fotografie scattate durante una gita, qualcosa si era mosso in lui. Fare il bagaglio, partire, lasciarsi alle spalle il comodo appartamento cittadino, era stata questione di poche ore. Un pensionato benestante, così amava definire se stesso, poteva permettersi queste fughe — e tante altre volte era accaduto così — ma in questo caso il lasciarsi alle spalle la città, con le abitudini e gli agi sempre più radicati in lui a mano a mano che sprofondava nel mare degli anni, si era manifestato come una sorta di dovere, quasi un richiamo sussurrato durante un sogno.

Quando aveva messo piede a Venezia, la città in cui pensava avesse avuto origine la sua famiglia (della quale non sapeva nulla perché, trovato in un’alba d’agosto sulle scale di una chiesa, avvolto in fasce da neonato, era stato allevato da genitori adottivi), si era sentito invadere a poco a poco, da una morbida sensazione in cui si alternavano passività e ardore, in una cieca aspettazione di eventi senza peso, impalpabili, di cui non poteva afferrare l’intensità. Fermo sulle alte scale della stazione ferroviaria aveva appoggiato di fianco a sé la sacca degli indumenti e guardava con gli occhi privi di ogni espressione l’intrecciarsi degli scafi attorno agli approdi, l’infittirsi della folla nel piazzale di pietra battuto da un vento instancabile. Striscioni e stendardi rossi che annunciavano mostre e manifestazioni schioccavano, sollevati in alto da qualche raffica più violenta, e poi ricadevano inerti.

Non sentiva però, come di consueto, il desiderio della lenta traversata del Canal Grande in piedi sulla tolda del vaporetto, con la sfilata delle belle dimore dalle finestre ad arco acuto e dai comignoli ineguali e bizzarri. Preferì salire subito, invece, quasi avesse un appuntamento indilazionabile, su una <<circolare>> che, lasciata la stazione ferroviaria con i giovani appollaiati come piccioni sulle larghe scale, aveva subito svoltato per canali secondari verso la sponda consunta e rugginosa delle Fondamenta Nuove, di fronte alla quale si levavano, in un’atmosfera grigia e gelida, le mura e i cipressi del cimitero nell’acqua, dalla quale avrebbe potuto spuntare senza stupirlo, pensò, la barca fantasma dell’isola dei morti.

Sui muri delle case, a pelo dell’acqua, grossi ratti di pelo rossiccio, grondanti, dai musi appuntiti, correvano qua e là, senza sottrarsi alla vista. Una bambina, dai vetri del vaporetto, ne indicò uno alla madre, che si rivolse con parole di raccapriccio alla sua vicina. Ma Bernardo Barbaro — questo era il nome che gli era stato imposto nell’orfanatrofio — non si lasciò vincere dallo schifo, perché tutto ciò che lo circondava gli sembrava adesso predisposto come il copione di uno spettacolo studiato con dovizia di particolari, al quale mancassero solo i dialoghi.

Questo senso di predestinazione, lo stesso che forse serpeggiava, in tempi lontani, nelle vittime sacrificali di sanguinose religioni, lo riprese a bordo della motonave che dominava, alta e spettrale, il massiccio molo di pietra. Quando, tra rochi suoni della sirena, lo scafo si staccò dalla terraferma, le prime luci si accendevano nei poveri negozi della riva, qua e là adorni di luminose coroncine di Natale, mentre in seno alla laguna fiorivano, l’una dopo l’altra, le lampade rosse che segnavano la rotta. Solo uno squarcio viola, livido tra il grigiore, segnava il tramonto alle spalle della città, offuscata da una nebbia sottile che cancellava le sagome snelle dei campanili. La motonave sembrava immobile nell’acqua, ma le dure e squadrate pietre della costa si allontanavano, ovattandosi: qualche scafo a motore, ritardatario, incrociava il lento procedere della nave, come quei gusci di pescatori che, all’approssimarsi del buio, si affrettano verso la sicurezza della terraferma, con l’ospitale tepore delle case.

Bernardo aveva appoggiato la valigia di fianco a sé, sul sedile, e la tolse solo quando, alla fermata del faro di Murano che sciabolava strisce di luce nella penombra, salì una frotta d’uomini vocianti, con gli stivali di gomma, che occuparono tutti i posti rimasti liberi. Davanti a lui una fragile vecchia in nero lavorava all’uncinetto un centrino di filo bianco e scambiava parole a voce bassa con la sua vicina, che teneva in mano un rosario agitando la pendula croce nera. Sotto il tremulo movimento delle mani e del ferro aguzzo il ricamo cresceva con la stessa lentezza con cui la motonave sfiorava i grandi pali di legno del percorso: tanto che una sonnolenza lo prese, una forma d’ipnosi nella quale si confondevano, fluttuando, pensieri e speranze, e la mèta gli appariva, insieme, lontanissima e assurda. <<Un colpo di testa>> pensò <<ma è cosa senza importanza. Potrei tornare indietro questa sera stessa, e prendere alloggio in città>>.

Ma quando la scritta sul muro di pietra che sorgeva davanti all’approdo gli annunciò l’isola capì, senza più esitazioni, che la scelta era fatta. Passivamente raccolse la sacca e varcò il breve ponticello di legno ondeggiante con la paura sottile di chi si avventura sulla soglia di un abisso.

 

Prefazione

Introduzione

Parte prima

1

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3

4

5

6

7

8

9

10

11

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13

14

15

16

17

Parte seconda

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13

Epilogo

Indice Ultimo degli Altinati

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