Capitolo 16

Parte Prima

 

 

 

 

 

 

La biblioteca di Orseolo Centrago — l’uomo che era stato il padre di Amabile — lo affascinò. I libri, dai solidi dorsi rilegati rozzamente, erano allineati in scaffali di legno, certo costruiti dallo stesso padrone di casa, in una stanza isolata della grande casa che sorgeva a una delle estremità dell’isola e che era lasciata per metà in abbandono. Bernardo ne aveva ammirato, da lontano, il tetto di vecchi coppi coperti di muschio, dominato da alti comignoli cilindrici. La madre di Amabile, Paolina, sedeva nella cucina dai muri anneriti, attizzando il fuoco nella stufa sulla quale era solita cucinare. Piccola e rinsecchita, avvolta in grandi scialli grigi come i suoi capelli, mascherava la sordità, la incapacità di sentire le voci, dietro un angelico sorriso che i denti radi ed ineguali non deturpavano. Da quando la figlia si era sposata, viveva sola nella grande casa, isolata nel suo silenzio. Volle a tutti i costi preparare un caffè per l’ospite: con mano sicura rivoltò la grande caffettiera napoletana, che aveva fatto scaldare sulla stufa, e posò sul tavolo, su bianchi centrini di merletti, piccole e trasparenti tazzine di porcellana cinese. <<Un regalo di nozze>>, sussurrò all’ospite. Non aveva la voce forte e stonata di certi sordi, incapaci di controllarne il volume. Parlava lievemente e i suoi occhi erano sempre fissi sulla bocca di chi le stava di fronte per capire, dai movimenti delle labbra, le parole che le erano rivolte.

Amabile lo accompagnò poi, attraverso uno squallido corridoio, nella stanza dove Orseolo s’era appartato negli anni della vecchiaia. I muri erano macchiati d’umidità e vene di salnitro si perdevano nell’ombra dell’alto soffitto dalle travature di legno. Nella miseria dei mobili sgangherati faceva spicco una sedia a dondolo ottocentesca, collocata davanti alla finestra. <<E’ qui che leggeva>> gli disse Amabile. Rimase con lui un attimo e poi lo avvertì che doveva recarsi, come tutti i giorni, a Burano. Quando uscì, chiudendo la porta scricchiolante, Bernardo rimase a lungo sulla sedia, lasciandosi andare al dondolìo con la felicità di un bambino. Al di là dei vetri polverosi il campanile della cattedrale saliva e scendeva, al movimento del dondolo, come il pennone di una nave colta dalla tempesta. Quel movimento ondeggiante apriva in lui ampie zone di vuoto che qualcosa — ricordi, immagini — avrebbe dovuto riempire. Gli apparivano, come lievi visioni, bianchi fogli di carta sui quali la sua mano avrebbe potuto scrivere storie non inventate ma germinate dai meandri della sua memoria. Certo, ora l’avvertiva più angosciosamente che mai, c’era stato nella sua vita un periodo, felice o infelice non sapeva, sul quale era scesa una oscurità totale, un cielo senza luna e senza stelle, dal quale erano scomparse anche le più lontane costellazioni. Qualche volta, nelle rare pause dell’ansia che sempre aveva ispirato i suoi atti, sollecitato i suoi movimenti, in quel buio che aveva dentro di sé si era profilata qualche lieve galassia brulicante di forme trasparenti, a malapena visibili. Quando aveva cercato di aggrapparvisi, per far luce nel caos delle dimenticanze, tutto era svanito all’improvviso, non sapeva se per opera del fato (una parola solenne, ma per lui non priva di significato) o per una sua intima debolezza. Forse era la paura di bussare alle porte di un reame al quale si avvicinava con troppa trepidazione, inquieto e goffo come un uccellino appollaiato sul ramo col timore di precipitare, incerto sulla tenuta delle sue fragili ali.

Adesso, come per un segnale improvviso, il dondolio suscitava in lui il desiderio di varcare la soglia vietata: ed era sicuro, ormai, che quella situazione aveva un precedente e che quel precedente faceva parte del buio ignoto. Toccò le corde dell’inconscio e le sentì rispondere, vibrare con una intensità che non portava suono ma dolore. Era un bambino rannicchiato su una vecchia poltrona dondolante e andava su e giù, come ora, davanti a un caminetto acceso, dal fuoco scoppiettante. Vedeva, sulla grande pietra che sormontava il focolare, una immagine netta e precisa, un cartiglio in cui spiccava la zampa artigliata di un’aquila intorno alla quale si dipartiva, in cerchio, qualcosa di simile a una cresta rigida e puntuta. La stessa immagine che lo aveva colpito, qualche giorno prima, scolpita sull’architrave di una casa dell’isola, mentre accarezzava l’umido naso dei cani da caccia. E c’era anche una donna con un abito bianco di pizzo che appariva e spariva nelle ombre proiettate dalla legna ardente. La poltrona, con il suo dondolio regolare, sembrava allontanarlo dal caldo grembo delle braci che lo proteggevano dal freddo e anche dalla donna, il cui sorriso si faceva sempre più fioco nella penombra. Sprofondò per un attimo nel sonno e si ridestò bruscamente, sconvolto da un’angoscia lancinante.

Per vincerla, per ritornare nell’indifferente torpore di tutti i giorni, dovette lasciare la stanza e scendere, lasciandosi alle spalle il lungo corridoio umido e desolato, fino alla cucina, dove Paolina stava in piedi accanto al tavolo, sbucciando le patate. La vecchia gli rivolse, di nuovo, il suo soave sorriso, indicandogli la caffettiera. Quel semplice gesto lo placò, dissolse ogni inquietudine: si sentì rasserenato e bevve con sollievo il caffè ancora caldo. Le fece un cenno di ringraziamento e tornò di sopra, ripercorrendo le scale con passo leggero, come un ragazzo che torna da scuola. Si fermò davanti agli scaffali e lesse i titoli di alcuni volumi: erano vecchie storie dell’isola, o storie più ampie di Venezia e della sua terraferma. Ne aprì qualcuno, guardò le incisioni che riproducevano monumenti a lui noti, lesse qua e là qualche pagina stinta, sulla quale il tempo aveva steso una patina trasparente. Ma quel che lo attirava erano i quaderni di Orseolo, dalla copertina nera, posati l’uno sull’altro. Una mano, certo quella di Amabile, aveva di recente tolto dalle copertine la polvere che, invece, ricopriva fitta il piano di legno della scrivania. Aprì una pagina a caso: la calligrafia era forte ma incerta, da autodidatta, e le frasi, pur tra le sgrammaticature, rivelavano un’insolita forza espressiva.

Prefazione

Introduzione

Parte prima

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11

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13

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Parte seconda

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13

Epilogo

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