Introduzione

di Marcello Venturi

 

 

 

 

 

Con Franco De Poli ci conoscemmo a Milano nell’immediato dopoguerra, quando ancora la città presentava le orrende ferite dei bombardamenti e nelle sue strade echeggiavano, di notte, gli spari degli ultimi scontri tra i partigiani e i residui cecchini fascisti. Erano anni di euforia, di stordimento. Erano gli anni in cui, ancora ragazzi, ci sentivamo un po’ i protagonisti di una vicenda più grande di noi, quasi eroi involontari e vittoriosi: e tuttavia anche un po’ intimiditi da quell’improvviso ritorno ad un tran-tran quotidiano del quale avevamo perso, insieme all’abitudine, persino il gusto.

Franco De Poli lavorava alla redazione de L’Unità, tra le macerie e i muri diroccati del Palazzo dei Giornali, a Piazza Cavour. Fu lì che lo trovai, dopo aver salito scale pericolanti e attraversato pavimenti precari. Sedeva dietro una scrivania impolverata e ingombra di carte, quasi minuscolo nell’ampio stanzone che, più che di un ufficio di un giornale, aveva l’aria di un magazzino dissestato. E fu precisamente da lì, da dietro quella scrivania provvisoria, che cominciò un’amicizia che provvisoria non fu. Perché qualcosa di imprecisato e impalpabile ci unì di colpo, io che venivo da un piccolo paese della provincia emiliana — Fornovo Taro — e lui che pure risiedeva da tempo nella grande città: la stessa sensazione di smarrimento che si prova dinanzi ad un futuro aperto ad ogni possibile soluzione, ed ad ogni possibile responsabilità.

Fui suo ospite in una fredda camera ammobiliata di periferia, per le mie prime notti milanesi. Una di quelle camere fredde e solitarie, dai vetri opachi di smog, o rotti, che per anni accolsero i nostri sonni agitati. Fui suo compagno di tavola in quelle squallide mense aziendali dove, mangiando, si aveva l’impressione che il razionamento non fosse ancora finito. Ma, a mano a mano che prendevamo confidenza con la nuova realtà, le nostre timidezze svanivano: sentivamo, o credevamo, di essere parte di quella stessa realtà, così ricca di promesse, per la quale valeva la pena di continuare, allo scoperto, la lotta che avevamo combattuto clandestini.

Di questa lotta Franco De Poli si rivelava, ogni giorno di più, partecipe e vittima. Vittima nel senso che, tralasciando ogni interesse di carattere letterario — in lui fortissimo — egli dedicò le proprie energie esclusivamente ai fatti contingenti, immediati, di cronaca: rinviando i problemi privati, di poesia, a tempi più quieti. Tempi più quieti che inevitabilmente sopravvennero di delusione e di ripensamento, ma che ancora una volta lo trovarono disponibile sulla pubblica piazza, ora a dirigere periodici di battaglia, quale Il Discanto, ora a dirigere periodici d’avanguardia, quali Il Canguro o Il Tre Rosso. E’ tuttavia a partire da questo momento, e cioè da quando abbandona il giornale militante, che si apre per Franco De Poli un periodo di più vaste possibilità creative. I suoi primi tentativi di narrativa, sollecitati anche dall’esterno, lasciano bene sperare per la precisione del linguaggio e la carica poetica che li sostanzia: ma l’inquietudine e l’insoddisfazione congenita dell’autore fanno sì che ogni tentativo rimanga tale, sospeso a metà. Preferisce dedicarsi alla traduzione dei poeti prediletti: Hikmet, Sandburg, Poe, Frost, Senghor, Queneau, Whitman, Césaire, Patchen, quasi ad eludere una prova diretta con se stesso. Collabora a libri d’arte su Dürer, Grünewald, Altdorfer, Bosch, Bruegel, Renoir. Finché, giunto al culmine della propria esperienza umana, assai tempestosa, e della propria maturazione intellettuale, egli non si decide al gran passo: ed ecco che il racconto iniziato, questa volta va avanti, procede speditamente, si popola di personaggi e si anima di vicende. E, finalmente, il romanzo c’è.

E’ questo, L’ultimo degli Altinati, il romanzo che Franco De Poli ha saputo condurre a compimento. Con la stessa precisione e accuratezza di linguaggio che già erano state riscontrate in quei suoi primi, lontani tentativi. Con in più, una carica maggiore di poesia e, se vogliamo, di disperazione. Romanzo intessuto di sottili rapporti e di emblematiche ricerche: dove, alla componente psicologica e filosofica del contenuto, che conferisce all’opera uno speciale spessore, fa da sfondo un suggestivo clima di confine. Quel confine tra la terra e il mare, tra il passato e il presente, tra le immagini della memoria e le immagini della realtà: in cui un’intera generazione si è ritrovata, ad un certo punto della propria vita, a dover fare i conti con se stessa.

Giacché, fedele alla propria vocazione di giornalista, e quindi interessato a fatti e avvenimenti che siano passati attraverso la sua personale esperienza, Franco De Poli, anche qui, non si abbandona al gusto dell’invenzione fantastica, o soltanto ad essa: il suo romanzo è, in qualche modo, suo nel senso più letterale della parola. Costituendo una specie di bilancio, o testimonianza, in cui non pochi di noi — noi di quella Milano dell’immediato dopoguerra — possono riconoscersi senza eccessiva difficoltà.

Marcello Venturi

Prefazione

Introduzione

Parte prima

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Parte seconda

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Epilogo

Indice Ultimo degli Altinati

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