Capitolo 5

Parte Seconda

 

 

 

 

 

 

5

L’alba, sull’isola, giunge presto: i galli levano voci acute, disumane, in protesta corale contro la luce che a poco a poco rischiara le acque e le paludi. Le poche case escono dal buio con le misteriose sagome dei loro comignoli stagliate contro il cielo livido, nel quale si stemperano brandelli di nuvole, cirri inquieti. Bernardo, che cerca invano di riprendere sonno, tende l’orecchio alle strida che escono dai pollai e che sembrano ingigantire nel vuoto. E’ come se vedesse gli enormi animali, con gli artigli ficcati nel terreno umido, sollevare fieramente la cresta, il becco spalancato nello squillo. Si agita, tira lenzuola e coperte nel tentativo di coprirsi la testa, di soffocare l’insonnia che lo sconvolge. La donna accanto a lui è invece abbandonata totalmente al sonno, respira lieve con la bocca socchiusa. Ogni tanto geme, come quasi sempre le accade, e il gemito è la spia di sogni angosciati. Bernardo ha la bocca amara. In città, quando soffre di questi bruschi risvegli, si veste, scende la bar dove i ragazzi in giacca bianca hanno già sollevato le saracinesche e, ancora un po’ intontiti, servono il caffè al giornalaio, al macellaio, alle donne delle pulizie che, in piedi fin dall’alba, hanno appena finito di lustrare i pavimenti degli uffici, i ripiani delle scrivanie dove le carte ammucchiate in disordine sembrano pronte per un gigantesco falò distruggitore. Le donne parlano fitto, con accento meridionale, e i clienti mattutini attendono che arrivi il pulmino delle brioches. L’autista scarica le scatole di cartone e un ragazzo allinea sul bancone i lieviti da poco sfornati. Bernardo legge il giornale, tende l’orecchio curioso alle parole delle donne, rumina lentamente il suo cornetto quotidiano.

Sull’isola tutto è diverso. Se uscisse troverebbe un deserto silenzioso. Anche le barche dei pescatori scivolano sull’acqua senza rumore, e appaiono tra le brume come le ombre della palude stigia. Gli stessi Bono si alzano più tardi, quando il sole è già oltre il pelo dell’acqua, e scendono nell’orto dopo aver acceso il fuoco nella cucina economica, sulla quale splende il bricco smaltato del caffè. I primi turisti appaiono solo quando il sole è già alto: il viaggio da Venezia dura più di un’ora e le macchine fotografiche richiedono luce cristallina. Eppure la voglia di evadere è in lui più forte del pensiero della desolazione che lo attende. Si veste con mosse furtive per non svegliare la donna addormentata, esce dalla stanza con le scarpe in mano, per non fare rumore. Il corridoio è in penombra, la scala scricchiola sinistramente, il chiavistello è arrugginito e stride, sfilandosi dai suoi anelli. Il rumore invade lo spazio vuoto, come uno squillo di tromba in un teatro deserto. Ma nessuno, per fortuna, si sveglia, e Bernardo è fuori, guarda l’ombra giallina del sole che sta ancora celato nell’acqua.

Cammina fino a Santa Fosca, strofina le scarpe infangate nell’erba umida che ricopre la piazzetta di fronte alle chiese. Poco più avanti, svoltato l’angolo del giardino delle statue, l’acqua del canale scivola lentamente accanto ai piloni dell’alta tensione. Con un improvviso frullo che echeggia nel silenzio, un gruppo di anatre scivola giù dal basso argine e si dirige verso la sponda opposta. Remigano impettite, con un lieve squittìo, sollevando piccole onde che si allargano dietro di loro, come la scia di una nave. Salgono poi in frotta, spingendosi l’una contro l’altra, tra il verde delle canne: anche questo piccolo segno di vita scompare e l’isola è di nuovo un freddo cimitero addormentato tra le brume.

La sedia di Attila accoglie il mattiniero con il suo marmo corroso, inumidito. Qui, in una mattina lontana, in una solitudine simile a quella che sta provando, è echeggiato lo sparo di Orseolo, e il sangue rosso è colato sul candido schienale mentre l’uomo si accasciava di fronte al colonnato a semicerchio della chiesa, l’ultima visione rimasta, certo, nelle sue pupille sbarrate. Un’orgogliosa fine nell’isolamento, un rifiuto dei tremori senili e della decadenza del corpo. O, forse, l’ultimo tentativo per prendere contatto con l’antica realtà di cui era andato scavando vestigia e ricordi. Il fiore sanguigno diventa una pozza, il sangue gocciola lentamente, i gatti delle case vicine — dalle quali nessuno si è affacciato — sono lì attorno a guardare con curiosità il fagotto abbandonato, le dita diafane delle mani aperte come ali d’un fragile uccello.

Avranno dovuto sfregare a lungo per togliere la macchia, pensa Bernardo. Il sole, intanto, scioglie le brume, insinua il suo fulgore tra le colonne della chiesa, illumina la cima del campanile dove le campane sembrano lì lì per piombare nel fango, sollevando schizzi e sordi schianti. In mattine come questa, nel freddo tombale di case deserte — solo una radio isolata suonava Rosamunda, l’unica musica che gli viene alla mente con la sua demenziale allegria — un Bernardo insonnolito si affacciava al portone di una casa ai margini della campagna. L’ampia distesa dei prati, solcati dai filari dei gelsi, invitava alle corse, ma lui portava a tracolla la cartella di cartone pressato, con i libri e i quaderni. La giacca pesante, ricavata da quella dell’uomo che l’aveva adottato, non gli copriva le gambe stecchite, che uscivano come rametti secchi dai calzoncini corti. Si guardava, vergognoso, le lunghe calze di lana fatte a mano tenute su, sotto i calzoni, da giarrettiere d’elastico che gli stringevano le cosce, imprimendogli sulla pelle un reticolo di punti. Molti suoi compagni avevano le gambe nude, con calzerotti colorati, altri portavano già con fierezza i calzoni lunghi, caldi e comodi. Lui solo aveva quelle buffe calze marroni e gli altri lo guardavano divertiti. <<Femminuccia, femminuccia>> era il mormorio che sentiva attorno a sé, e che spesso diventava grido irridente. Lui stringeva i denti e camminava tra fitti sguardi incrociati che lo pungevano e lo straziavano più dell’insultante epiteto.

Ogni mattina, più del freddo e dell’umidità (quando pioveva portava con sé l’unico ombrello di casa, da donna, a fiorellini stinti) lo atterriva l’incontro con i compagni, che già lo avevano accolto come un intruso agli inizi della scuola, quando era emerso che lui era un figlio di nessuno, perché di suo padre e di sua madre non si conosceva neppure il nome.

L’uomo che, insieme alla moglie, lo aveva accolto in casa portandolo via dal pollaio dell’orfanotrofio per incassare ogni mese una piccola somma, era un muratore, non andava troppo per il sottile. La donna aveva gli occhi estremamente umidi, viveva in vestaglia nella casa semivuota, con pochi arredi. I vivaci paesaggi nelle oleografie appese alle pareti erano l’unica nota di colore in quell’eterno grigio delle tapparelle sempre abbassate durante il giorno, e delle fioche lampadine appese ai fili la sera. Gli preparava la colazione, gli metteva i libri in cartella, scendeva ad aprirgli il chiavistello, e il calvario ricominciava, una mattina dopo l’altra, nei mesi che vanno da ottobre ad aprile, quando le calze lunghe venivano riposte nella cassapanca e i piedi nudi gli ballavano nelle scarpe diventate improvvisamente larghe.

Stringeva i pugni, e avrebbe voluto abbattere i suoi persecutori con colpi implacabili, come aveva visto fare in un film di cow-boys nel cinema di legno rimbombante, il suono chioccio del pianoforte soverchiato dall’urlo degli spettatori e dallo strepito dei bambini più piccoli che correvano nel corridoio tra le poltrone, o nello spazio vuoto davanti allo schermo. L’uomo che batteva i tasti era un vecchio alto e fiero, che portava sempre il cappello e un mezzo sigaro spento all’angolo della bocca. Qualche volta si fermava, e girandosi gridava con voce roca: <<Zitti, voi>>. Ma poi tornava alla tastiera e si isolava. Qualche volta una musica classica faceva capolino tra marce e fox-trot, ma nessuno se ne accorgeva, nel baccano. Quando lo aveva visto passare per cercare un posto in prima fila, l’uomo gli aveva detto, con voce brusca: <<Ma i tuoi non lo vedono quanto sei ridicolo, con quelle calze da bambina?>>. Nonostante quelle parole brutali, le poche volte che aveva potuto permettersi il cinema si era seduto proprio dietro di lui, perché la musica gli piaceva, gli dava allegria. E anche per sentirsi al sicuro dietro a quelle sue spalle magre e sbilenche che sorreggevano una giacca nera, lisa come il cappello di pelo che non si toglieva mai. <<Ancora con quelle calze?>> gli diceva l’uomo, voltandosi. Ma non lo prendeva in giro, sembrava anzi che capisse la sua vergogna e la sua impotenza. <<Se vieni a casa mia>> gli aveva detto una volta <<ti farò ascoltare della musica diversa>>.

Così un giorno, invece di entrare in classe, Bernardo si avviò verso la casa dell’uomo del pianoforte, che abitava al pianterreno di un edificio dalle lunghe file di ringhiere dove stavano appesi, fitti fitti, i bianchi panni del bucato. Lo colpì subito, nell’atrio, una fotografia del suo ospite: era in abito nero da sera, con le code, seduto davanti a un lucente pianoforte da concerto, e voltava la testa sorridendo, come per rispondere agli applausi di un pubblico che non si vedeva. Nella sala c’erano poltrone imbottite e buffi divani di legno scuro incrostati di madreperla. Un abat-jour verde, con lunghe frange, gettava ombre fluttuanti sulle pareti. Le finestre erano nascoste da pesanti tende a fiori e l’uomo, mentre gli parlava, muoveva di continuo le mani venate d’azzurro. Ricordava, scuotendo il capo, i bei tempi dei concerti, le sale dalle poltrone rosse e dagli immensi lampadari di cristallo. Adesso che era decaduto, la gente lo giudicava matto. Ma il ragazzo aveva fiducia in lui, forse per via di quella musica che suscitava allegria. Decise quindi di rivelargli le sue angosce. <<Sono un trovatello>> gli disse all’improvviso. <<Non è mia madre quella che mi mette le calze da donna, e io non posso protestare. Sono gentili con me, mi danno da mangiare. D’estate mi portano anche in montagna, a prendere aria buona>>. L’uomo scuoteva il capo, e si versò un liquore trasparente in un bicchierino di vetro sfaccettato. Gli tremavano le mani e il collo della bottiglia batteva contro l’orlo del bicchiere. Poi, d’improvviso, s’infuriò, gli occhi gli si accesero, s’infossarono nel viso. Allungò le mani verso di lui e gridò: <<Vai via, razza di bastardo! Vai a scuola e impara a vivere>>.

Poi si mise a singhiozzare e Bernardo fuggì, sbattendo la porta alle spalle, e si trovò fuori, con la gente che camminava sul marciapiede intorno a lui. Doveva tornare a scuola ma aveva paura. Allora, con un gesto che gli scattò dentro all’improvviso, sferrò un colpo col ginocchio contro la corteccia ruvida di un albero. Il dolore era atroce, il sangue colava dalla pelle sbucciata. Zoppicò fino a scuola e, quando aprì la porta dell’aula, tutte le teste si voltarono verso di lui. Alzò il ginocchio verso la maestra che si era levata in piedi, al rumore, e lo interrogava con lo sguardo. Poi gli si avvicinò e col fazzoletto gli pulì la ferita. <<Va al tuo posto, adesso>> gli disse. La voce non era severa, come quando intimava il silenzio agli scatenati. Era una voce materna, ricca e soave, con toni di comprensione. Bernardo alzò le braccia verso di lei, chiedendo un abbraccio, ma venne respinto. <<Ti ho detto di andare al tuo posto>>: la voce era di nuovo dura, senza debolezze. I suoi compagni ridevano tutti. Una voce gridò <<femminuccia>>. La lezione continuò.

Un vaporetto, ora, fa sentire la sua sirena nel canale, la luce è dilagata ovunque. Bernardo, ridestato da quel suono, guarda il bianco trono di marmo. Ma i ricordi rimangono vivi in lui. <<Anche di questo sono fatto>> mormora tra sé. Eppure è uscito dalla ragnatela mortale, si è aperto la via dell’esistenza come, nel fitto degli arbusti, ci si fa la strada a colpi di roncola. E’ fiero di se stesso, deciso a continuare. Non ci saranno colpi di pistola, sangue sul marmo. Può tornare alla pensione, furtivo così come ne è fuggito. Cristina è ancora addormentata, si muove nel sonno. Poi, quando lui è di nuovo a letto, la sfiora con le dita, gli bisbiglia un saluto. <<Come sei freddo>> dice, e ripiomba nel torpore. Nel caldo del letto Bernardo allunga la mano e cerca il ventre di lei, sotto la camicia da notte. E’ liscio e caldo, un grembo materno e felice. Gli trasmette calore, sicurezza, bontà. Così si assopisce, mentre dalla via giungono i rumori dei primi turisti.

Prefazione

Introduzione

Parte prima

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Parte seconda

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Epilogo

Indice Ultimo degli Altinati

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