Capitolo 6

Parte Seconda

 

 

 

 

 

 

I pizzegamorti parevano tornati nelle strette calli veneziane e camminavano, barcollando nelle pesanti casacche catramate, intrise di profumi contro il contagio, stretti nelle calzabraghe e nei guanti, anch’essi rigidi di catrame impenetrabile. Trascinavano i cadaveri con i raffi, li portavano con le carrette attraverso il lido, per la sepoltura nelle grandi fosse comuni dalle quali esalavano orrendi miasmi — gli stessi che diffondevano il male? — o li caricavano nei burchielli riempiti di calce che dovevano essere affondati al largo. Anche i medici, con i bastoncini bianchi per segnalare il pericolo ai passanti, si muovevano simili a gigantesche papere, con il volto nascosto dietro le maschere a forma di becco nella quale era stipata la mistura odorosa che avrebbe dovuto salvarli dall’infezione. Parlavano sottovoce tra loro e quando venivano chiamati a consulto toccavano da lontano i bubboni con la loro bacchetta o li incidevano con mano paurosa, cauterizzandoli con il ferro infuocato e il vetriolo. Portavano con sé il vasetto di vetro nel quale si aggrovigliavano i corpi neri e molli delle sanguisughe.

La peste era ancora a Venezia, in mostra tra libri antichi e dipinti che ne illustravano l’orrenda vitalità. La morte nera, rimasta nel subconscio dell’uomo che ne subì il flagello per secoli, riesplodeva nelle sale fastose del palazzo le cui bifore si affacciavano sulla laguna angosciata. Cristina aveva voluto venire qui, lasciarsi alle spalle l’isola in cui non riusciva ad ambientarsi, e si aggirava inquieta tra le figure dei san Sebastiano trafitti da intrichi di frecce e dei san Rocco che con gesti infantili, da ballerinetta pudica, sollevavano l’abito per mostrare, sulla coscia, l’indelebile marchio del male. Queste storie di ecatombi, di miasmi inarrestabili sembravano cauterizzarla dal male oscuro che l’aveva riafferrata, stanchezza o incapacità di vivere, e che le rendeva inospitale la povera casa tra le paludi. Era stata, anche, una polemica sfida lanciata a Bernardo, che non voleva muoversi dall’isola e che si era lasciato trascinare fin lì malvolentieri, mosso solo da quella esagerata gentilezza che era stata alla base delle sue piccole sconfitte d’ogni giorno. Ma poi, una volta messo piede nel palazzo, salite le scale ripide, l’irritazione aveva preso il sopravvento e sul suo viso s’era stampato il broncio infantile che faceva piombare la ragazza in cupi sensi di colpa.

<<Mi sento troppo spesso come una che deve giustificarsi senza sapere perché>> diceva, ma Bernardo era fermo, ammirato, davanti a un grande telero del Tintoretto e si sentiva immerso nel cupo scenario, tra le figure degli appestati che si stagliavano, alla luce fioca delle fiaccole e delle candele, sul fondo nero del lazzaretto, insieme alla esile immagine del santo popolano, fragile e luminoso in mezzo ai segnali della morte. Ombre e luci erano anche in lui, in bilico tra una resa alla vita di prima e il confuso morbo che lo spingeva ora a rimanere isolato nel paesaggio dell’isola, cui lo legavano non chiariti rapporti. Si identificava ora nel personaggio del santo, immune tra i doloranti, ora in quello dell’uomo intabarrato che un pittore secentesco aveva dipinto sull’arco di un ponte dal quale corpi senza vita pendevano verso la barca che li raccoglieva, intento a turarsi il naso con le dita come per allontanare da sé, insieme la fetore, gli implacabili miasmi che diffondevano l’epidemia.

Questa mostra di morte — ma anche di lucida, razionale battaglia conto il male sconosciuto, tenuto nascosto per salvare l’immagine della città forte e serena — era vissuta da lui come un sopruso. Trascinato qui controvoglia, era stato costretto a prendere atto di una realtà che avrebbe voluto ignorare. L’antico tema della pestilenza, dell’annientamento — una storia che investiva di sé anche ogni metro quadrato dell’isola — lo coinvolgeva. Guardava Cristina, intenta a seguire opera per opera, volume per volume, con il volto chino sul pesante catalogo, come una turista diligente, ed era come se intuisse, al di là di lei, eventi affannosi e insoddisfacenti. La vanità del rapporto, pensava. Era la solitudine, adesso, la méta verso cui le sue ansie lo spingevano, ma che, insieme, lo impauriva. Forse gli antichi delegati della signoria, costretti a vivere nel mondo isolato e mortuario dei grandi lazzaretti cresciuti sulle isole, provavano paure come la sua. Incapaci di conoscere le cause del morbo, ma decisi a isolarlo, a nasconderlo, fonte di vergogna in un mondo che si reggeva sul fulgore delle armi, sullo sbandierare delle vele aperte nel vento e sui colori squillanti degli artisti che conquistavano con la pittura il dominio su vita e morte, l’immortalità.

Anche Bernardo avrebbe voluto toccare con mano il senso concreto del suo esistere, l’apertura serena verso il futuro. Si era illuso — e adesso lo capiva — che Cristina, indecisa, immersa nei suoi capelli e nei suoi pensieri ansiosi, fosse parte di un possibile avvenire. Ma l’isola si poneva tra loro, come i canali che separavano le alte mura dei lazzaretti dalle frenetiche fantasie della città, quando i ricchi fuggivano nella terraferma dove i miasmi pestiferi si smorzavano nel profumo delle violacciocche e i poveri, murati nelle case anguste, calavano dalle finestre i cestini per il cibo, timorosi di toccare il selciato appestato e le acque putride della loro patria. Tutto frana, nei momenti difficili; se non c’è chiarezza, le buone intenzioni lastricano davvero le vie verso l’inferno. L’irritazione era sempre più sorda, in lui, non trovava sfoghi se non nell’accanito silenzio, in una chiusura senza spiragli.

Non riuscì a superare questo stato d’animo neppure quando si ritrovarono, stanchi, nel fulgore della piazza, con le cupole della basilica luccicanti al sole e i vessilli multicolori che schioccavano, agitati dal vento, sugli alti ed esili pennoni. Il vecchio caffè aveva sulle pareti, nei colori un po’ stinti degli affreschi, immagini alate di una città gioiosa. Di fronte a loro due donne anziane, che esibivano la loro ricchezza nei monili sfolgoranti sui colli rugosi da tartaruga, sulle mani e sui polsi esangui, raccontavano a voce alta, in dialetto, storie che apparivano radicate nel passato: matrimoni, tradimenti, bambini che crescono, vicende umane ramificate da secoli tra i canali della città. Cristina ascoltava, curiosa, e gli schiacciava l’occhio, ma Bernardo non riusciva a sentirsi complice di quel banale chiacchiericcio. Lo attiravano, invece, i silenziosi giapponesi con le macchine fotografiche, insetti scesi senza rumore nella piazza. Era anche immusonito, frastornato, pensava alla scomoda stanza nell’isola come ad un rifugio inaccessibile in cui si potesse ancora meditare.

Aveva ormai dimenticato la città che lo frastornava con il roteante fiume delle automobili, i metallici rumori dei tram, i fischi secchi dei vigili che lo facevano sussultare come le sirene apocalittiche delle ambulanze e dei cellulari. Ma la sensazione di disagio non scompariva neppure qui dove nel silenzio, in ogni angolo, regnava la bellezza creata dall’uomo. Così compatta, così ridondante, che il suo cuore ne rimaneva angosciato perché invano tentava, come aveva già fatto altre volte, di afferrarla, di possederla, di goderla in ogni angolo e in ogni particolare. Angoli e particolari che si moltiplicavano all’infinito, fino a divenire imprendibili come riflessi d’uno specchio, nell’acqua appena mossa dove le gondole si dondolavano pigre.

Era stato proprio in questo caffè, dieci anni prima. Un’ira sorda e fulminea come una saetta, la borsa di maglia metallica alzata come un’arma calata improvvisa sul suo volto, il sangue che colava dallo zigomo. Un cameriere si era fermato a guardare, con il vassoio in mano, ma aveva poi preferito voltarsi, far finta di nulla. Gli occhi scuri roteavano come meteore furibonde, lo ferivano più del metallo luccicante, mentre sul tavolo si riversavano, insieme alle prime lacrime di rabbia, rossetto, fazzoletto, specchio, fiammiferi, sigarette, orecchini. Un piccolo tesoro uscito dalla sua teca inaccessibile, insieme al furore, alle parole scagliate anch’esse come armi che volevano colpire, ferire. Il volto amato, o forse solo desiderato, era contorto, inafferrabile. Aveva cercato invano giustificazioni, tentativi di spiegazione: <<C’è stato un equivoco…>>. Ma la donna si era alzata e, raccolti rabbiosamente gli oggetti caduti, si era allontanata, per sempre, il capo fieramente alzato come un’alabarda e i tacchi sottili che battevano con forza il selciato sconnesso delle paratie. Così era finito un altro sogno, la bellezza si era distorta, proprio come quella della città quando da una nave giunta dall’oriente erano fuggiti topi e pidocchi infestati, trasformando l’immagine di grazia in un inferno di dolore e di morte. Anche allora il senso del fatalismo e dell’impotenza aveva preso il sopravvento. Avrebbe dovuto rincorrerla, afferrarla per il braccio e riprendere un contatto fisico con lei. Invece era rimasto seduto, tamponandosi il sangue con il fazzoletto, e aveva ordinato, con voce sommessa, un altro caffè. La incapacità di reagire era, in lui, come una falla sempre aperta, nella quale precipitavano in un sol colpo decisioni maturate attraverso gli anni.

Si accorse, mentre viveva intensamente quel ricordo, che Cristina lo guardava incuriosita e allarmata. <<Che cos’hai, che cosa succede?>>. Nella voce c’era il riflesso dell’insicurezza che lui stesso provava. <<Pensavo alla peste>> mentì. Ora si trattava di improvvisare, cercando di cancellare con la realtà di quell’istante l’inquietudine del passato. La realtà, oggi, era quel viso dolce e tenero teso verso di lui per afferrare ogni sua reazione. Sì, tutto sbiadiva, un volto ne sostituiva un altro, e intanto il tempo passava, divorandolo, scavando amaramente le rughe sulla fronte. Lui e le donne che aveva tentato di amare. Rapporti superficiali, trasposizioni del reale nel romanzesco. Vivere una giornata luminosa, poi cadere nell’ignavia, assistere opaco al tramonto della creatività. Avrebbe voluto essere solo, mentre ripensava a tutto questo, ma già conosceva il cammino tante volte percorso. L’angustia di una stanza d’albergo in una città diversa, dove nessuno lo aspettava, l’inutile mescolarsi all’instancabile girovagare della folla. Oppure il sonno, torpido, buio, rannicchiato sul letto, dolente tavola di un oceano deserto. E il risveglio amaro già nel sapore della bocca, nel fiele che saliva dalle viscere, e il vuoto, il grande vuoto dei pensieri, lo smarrimento che lo coglieva insieme alla disperazione.

Era più facile, certo, allontanare le ombre se il sorriso spianava un volto proteso verso di lui e la sua mano rassicurante, amica, stringeva quella della donna che gli stava accanto. Quella stretta lo aiutava, i due avanzavano a braccetto sulle gambe malsicure, sorreggendosi a vicenda. Camminavano tra le vetrine aperte, luminose, ai due lati della strada, e il loro passo si faceva via via più sicuro, le parole erano tornate tra loro, addolcivano la vita.

 

Prefazione

Introduzione

Parte prima

1

2

3

4

5

6

7

8

9

10

11

12

13

14

15

16

17

Parte seconda

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13

Epilogo

Indice Ultimo degli Altinati

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